Entropia
M. Sciaccaluga (a cura di) – F. Meli e M. Sciaccaluga (interventi di)
Image Furini Arte Contemporanea, Arezzo
12 febbraio – 2 aprile 2005
edito da Image Furini Arte Contemporanea, Arezzo, 2005

Anime in cerca d’autore
Maurizio Sciaccaluga

Non si tratta semplicemente d’iperrealismo, come nel teatro di Luigi Pirandello non si tratta solo d’una messa in scena. Se fosse semplicemente iperrealismo, se si trattasse soltanto d’un esercizio di riproduzione straordinariamente tecnico e fuori del comune, i volti raffigurati da Vania Comoretti sorriderebbero, piangerebbero, mostrerebbero dolore e meraviglia come in un’abile rappresentazione d’intrattenimento, ma non avrebbero lo spessore e la storia della maschera tragica. In pratica, non potrebbero distaccarsi e andar oltre il modello che li ha ispirati, finirebbero per raccontare una galleria di personaggi e sentimenti rubati al mondo senza vivere mai, neppure un momento, di vita propria. La pittrice potrebbe dirsi cronista, forse fotografa, ma non certo autrice. Ma poiché non si tratta – se non come definizione di massima, utile dunque appena a definire il genere – d’iperrealismo, i protagonisti di carte, acquerelli e pastelli diventano effettivamente caratteri tragici da palcoscenico e la giovane artista si fa, a tutti gli effetti, autrice d’una riflessione profonda sul rapporto tra originale e copia, tra interprete e personaggio. Guardando con attenzione le opere, si può bene intendere come la Comoretti non finisca per gloriarsi esclusivamente d’una capacità similfotografica nel disegno ma – malgrado l’età e un diploma d’Accademia fresco fresco nel cassetto – riesca a mettere in piedi un discorso attento e articolato sul senso e il fine della rappresentazione, sappia dar vita a un gioco di specchi, sdoppiamenti e interpretazioni a volte addirittura crudele, sempre profondamente teatrale e drammatico.
Nella maggior parte dei pezzi le figure sono riprese due, tre, più volte, sono viste di fronte, di spalle e di lato. È come se la telecamera della pittura girasse loro attorno per riprenderle a tutto tondo, per rubare ogni segreto e non trascurare anche il più piccolo particolare. In quasi tutti i pezzi le figure guardano altrove, non sfidano lo spettatore ma ne cercano la complicità e la comprensione, sembrano distratte da qualcosa che non hanno il coraggio di svelare subito. In molti pezzi le figure sono costruite grazie a una sequenza d’immagini, dove le differenze impercettibili o apparentemente insignificanti sembrano suggerire che la storia che si sta andando a raccontare è davvero molto intima, privata, magari di nessun interesse per chi decide di rimanere in ascolto. Sempre, comunque, dietro i volti e le mani c’è un’anima e il senso della pittura non è quello di mostrare le semplici apparenze. Non si tratta di una ripresa a volo d’uccello sulla superfice delle carni e della pelle, ma di un tuffo in profondità, nelle viscere e nei segreti dei protagonisti ritratti. I quali, nudi pur senza mostrare nudità alcuna, privi della benché minima sicurezza offerta dal lembo d’un indumento che spunta anche solo per sbaglio nel quadro, si fanno maschere. Ma non maschere goliardiche, regionali, da canovaccio o avanspettacolo, piuttosto maschere in senso pirandelliano, portatrici di storie altrettanto vere e credibili quanto quelle reali, capaci d’adattarsi agli interpreti senza per questo lasciarsi mai sopraffare o mettere in gioco la propria sopravvivenza autonoma. Nei lavori della Comoretti il rapporto tra modello e raffigurazione non si esaurisce con le logiche e nelle coordinate del ritratto: non si tratta, nella migliore delle ipotesi, di cooptare nel quadro il carattere e la personalità dell’inidividuo, ma di creare un’alternativa ad esso, di generare un suo doppio capace di staccarsi dalla figura madre e di proporsi come alternativa. Un’alternativa però eterna, come eterna è solo la realtà dell’arte. La giovane artista friulana ricostruisce la fisionomia di amiche e conoscenti ma, a parte i connotati, di loro e del loro vissuto non lascia traccia alcuna nei suoi pezzi. La bionda, la bruna, la giovane, quella precocemente segnata dal tempo, il ragazzo dallo sguardo sperduto, la figura androgina diventano, seppur in senso diametralmente opposto, come il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio dei Sei personaggi di Pirandello. Come spiega uno dei protagonisti del dramma, si tratta di personaggi nati «dalla fantasia di un autore che però non seppe o volle farli vivere in un’opera d’arte», costringendoli così a smaniare finché qualcuno non dovesse decidere di recitare la loro storia. Ecco, la Comoretti fa un’operazione analoga: disegna l’identikit di un carattere teatrale la cui storia rimane nascosta dietro gli sguardi intensi e sofferti, nelle rughe della pelle, nelle pieghe dell’espressione, nell’atteggiamento silenziosamente rabbioso o orgogliosamente dimesso, e poi improvvisamente si ferma, si astiene dal proseguire nella narrazione. In realtà, le vicende ci sono già tutte, nascoste nell’anima delle figure, ma bisogna che qualcuno dia loro vita e respiro. Se in teatro sono gli attori a farlo, e dunque la storia che è gia sulla carta trova volti e immagini necessarie, nella ricerca della pittrice la questione si rovescia: esistono i volti, le carni segnate e le mani tormentate dall’attesa e dalla tensione, ora si attende soltanto che la successione degli eventi prenda corpo, che si compongano caratteri e vicende. Ed è allo spettatore, per l’occasione capocomico, che tocca il privilegio e l’onere d’immaginare una storia capace di calzare a pennello su quelle espressioni, su quei volti da teatro, su quelle maschere.
Nata artisticamente nel terzo millennio, Vania Comoretti non dipinge il suo tempo, non descrive la società che la circonda. Seppure i suoi modelli le girino continuamente intorno, l’incontrino spesso o di rado nelle sale dell’Accademia e lungo i calli veneziani, non sono le ragazze e i ragazzi d’oggi a mostrarsi nelle carte. In quegli occhi velati, accesi o stanchi non si vedono il vuoto e la pochezza dell’oggi, le regole di un mondo dove, alla Warhol, conta esclusivamente l’apparire, anche se solo più che per un quarto d’ora. L’artista racconta una realtà che va ben oltre il vero, non persegue l’iperrealtà ma piuttosto desidera andare oltre ogni apparenza. Per questo non è la somiglianza estrema tra soggetto e rappresentazione a dover colpire davvero nella ricerca, ma il fatto che, pur identici, i due estremi del discorso non si tocchino affatto, non abbiano punti di contatto se non inconsistenti e irrilevanti. Punto cardine del lavoro è come, appena terminato, il ritratto finisca immediatamente per abbandonare il ‘suo proprietario’ e scegliere una nuova via. Fulcro di questa pittura è come un’acconciatura o l’espressione d’un volto possano prestarsi di volta in volta a storie diverse, drammatiche, intense, senza per questo sembrare prive di uno spessore autonomo. Nei quadri di Vania Comoretti spesso, sempre, si recita a soggetto.

Sottopelle
Francesca Meli

Al primo impatto i lavori di Vania Comoretti possono apparire fotografici, fedeli riproduzioni della realtà. Dopo una più attenta analisi, però, ci si accorge che tale definizione è del tutto riduttiva.
Infatti la ricerca introspettiva della Comoretti fa efficace uso del reale come mezzo di comprensione dell’interiore. L’artista non solo non si ferma all’apparenza dell’oggetto rappresentato, ma neppure allo sguardo, per tradizione specchio dell’anima. Piuttosto cerca in ogni piega della pelle, in ogni poro dilatato qualche segreta rivelazione che si sprigioni dall’interno. Si legge nei suoi lavori la necessità di andare a fondo, di capire cosa renda ogni individuo tale.
Come in un esame autoptico la Comoretti non lascia nulla al caso, ogni particolare è dettaglio fondamentale, fonte di informazione indispensabile. La cura, la minuzia con cui porta avanti questo lavoro accanito e costante dimostrano la delicatezza della materia trattata, della sua vulnerabilità.
In ogni capello disegnato ad uno ad uno, in ogni impurità della pelle, si nascondono le fragilità dei personaggi, conoscenti dell’artista, persone perfettamente normali, che si prestano a questo studio senza ricerche estetiche. Le varie angolazioni, gli scorci a cui l’artista li sottopone, permettono di considerare la complessità dell’individuo.
Così come lo studio di parti del corpo umano, ad esempio le mani, non sono tanto studi di anatomia, quanto ricerca di elementi di analisi, dai quali far emergere il manifestarsi di debolezze fisiche, pressioni o atteggiamenti involontari.
Se gli studi di fisiognomica tentano di riunire in gruppi per tipologie i volti in base hai tratti somatici dei soggetti, delle personalità, realizzando quindi categorie di personaggi-tipo, Vania Comoretti fa ora l’opposto. Ovvero individualizza, rende unico ognuno dei suoi soggetti, proprio esaltandone l’imperfezione. Così ogni volto, ogni ruga, ogni ombra sulla pelle è segno di esperienza vissuta che racconta una gioia o un dolore, mediante un lavoro stratificato che l’artista trasferisce con sapiente abilità a pastello, acquerello e china su carta.